di Igor Pellicciari Console Onorario Emilia Romagna*
Alla base delle misure prese da Unione Europea e Stati Uniti contro Mosca c’è un grave errore di valutazione. Un errore che si poteva evitare studiando la storia del popolo russo invece di concentrarsi sull’analisi psicologica di Putin.
L’ennesimo inasprimento delle sanzioni è il momento adatto per una riflessione sullo stato e prospettiva del braccio di ferro, sempre più simile a uno psicodramma, tra l’Occidente e la Russia.
A parte il tema ricorrente dell’efficacia erga omnes dello strumento delle sanzioni in quanto tale, sembra evidente che esse servano in questo momento a cronicizzare la situazione di tensione con Mosca, non certo a risolverla.
Dal punto di vista moscovita, ciò è collegato a una serie di considerazioni politiche, economiche e finanche antropologico-culturali poco considerate da un Occidente spesso ancora troppo appiattito sull’analisi psicologica di Putin e del suo carattere.
Sintetizzeremo i principali aspetti del punto di vista russo con alcune, purtroppo inevitabili, semplificazioni.
Il versante politico – primatus politicae (internae)
Gran parte delle scelte del Cremlino in politica estera sono state influenzate, se non dettate, nell’ultimo decennio da considerazioni sulla loro ricaduta in politica interna.
Uno degli elementi nuovi del sistema politico russo è il progressivo aumento di importanza dato al consenso di una popolazione dominata al suo interno dall’emergente classe media.
È questo un ceto che coincide in larga parte con il vastissimo apparato burocratico del paese, il quale è stato fatto crescere economicamente in anni di politiche liberali e di redistribuzione del reddito, con la convinzione che una classe media appagata avrebbe avuto un orientamento conservatore e favorevole al mantenimento dello status quo politico.
Se negli anni Novanta l’opinione pubblica era irrilevante per una leadership distaccata e autoreferenziale, la novità dell’ultimo decennio è che oggi essa è diventata centrale per la tenuta del sistema di governo.
Dunque, la facile presa della Crimea è stata un’azione ideata sia per compensare lo shock per la perdita di controllo sull’Ucraina, sia per non perdere il sostegno dell’opinione pubblica, oramai molto sensibile sul tema. La forte ondata di popolarità verso il Cremlino registrata durante la campagna di febbraio 2014 probabilmente sarebbe presto diventata di protesta, se Putin avesse dato l’impressione di non sostenere i fratelli russi d’oltre confine a Donetsk e dintorni e di lasciarli al loro destino.
Anche il rapporto di forza tra Mosca e i ribelli filo-russi dell’Est Ucraina va in senso opposto rispetto a quanto viene raffigurato in Occidente. Secondo un percorso già visto in altri scenari recenti nell’Europa dell’est, i ribelli si sono resi autonomi passo dopo passo dalla “casa madre”, al punto da definire autonomamente i propri obiettivi e l’agenda politico-militare. La Russia si trova nello scomodo ruolo di dovere asseverare queste scelte anche quando appaiono radicali, pur di non ammettere di avere scarso controllo sui leader dei ribelli.
Come accaduto a suo tempo con l’imbarazzante Yanukovich, Mosca si deve adattare alle scelte delle leadership russofone. Questo anche perché il Cremlino non disdegna di selezionare i suoi rappresentanti nelle periferie secondo uno schema da pax romana, ovvero con l’endorsement a quei leader russofoni già emersi localmente, piuttosto che imponendo i propri candidati. Questo percorso espone a rischi minori in fase di selezione dei propri uomini in loco, ma al contempo limita fortemente l’efficacia di eventuali direttive verticistiche.
Nel caso dell’Ucraina, la via negoziale per una riorganizzazione confederale del paese proposta con insistenza dal ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov subito dopo la presa della Crimea e la grande cautela iniziale di Mosca nel commentare il referendum di Donetsk e di Lugansk sono state accantonate dinanzi al rilancio della campagna militare di Kiev, ma anche in seguito alla determinazione a combattere mostrata delle leadership russofone ucraine.
Visto da questa prospettiva, mostra la sua debolezza di fondo uno degli assunti dei sostenitori delle sanzioni, ovvero che mettendo spalle al muro la Russia essa possa convincere i ribelli ucraini a moderare i loro passi sia politici sia militari.
Come dimostra l’andamento dei negoziati a Minsk per la zona demilitarizzata, Mosca in questa fase si pone più come mediatrice rispetto alle istanze dei russofoni in Ucraina che come loro gerarchica coordinatrice.
Il versante economico – i costi di un impero
Altro assunto azzardato dei sostenitori delle sanzioni è che la Russia cambierà la sua strategia una volta valutato l’impatto negativo che esse avranno sul quadro economico del paese. Chi propone questa considerazione dimentica che l’Unione Sovietica è crollata non per una repentina voglia di aprirsi all’Occidente, bensì perché il sistema non era più sostenibile economicamente. Fino a quel momento però – e per svariati decenni – le scelte politiche erano sempre state prioritarie e avevano avuto la meglio su quelle economiche.
Anche oggi il tema dei costi pare una preoccupazione secondaria per la leadership russa, che pur non sottovalutandoli, li tratta con un certo distacco rassegnato. Rispetto all’imperfetta politica imperiale americana – che punta sì a esercitare un potere su Stati terzi, salvo poi presentare il conto del suo intervento – la Russia ha ancora un approccio per così dire imperiale classico: accetta di pagare di tasca propria e per intero gli alti costi delle sue ambizioni di predominio nelle aree di sua influenza.
L’impatto delle sanzioni sull’economia, da questa prospettiva, non farà che rafforzare nella leadership russa la convinzione della bontà degli obiettivi politici, compattandola attorno a essi.
Altrettanto audace è l’assunto di chi pensa che Mosca si farà influenzare dall’ingente fuga di capitali in atto in questi mesi dal suo sistema economico. Il punto è che nella quasi totalità dei casi si tratta di capitali stranieri, mentre la vera attenzione di Mosca è rivolta a bloccare il flusso di capitali russi andati troppo facilmente oltre confine negli ultimi due decenni.
Dalla crisi finanziaria di Cipro alle recenti legislazioni restrittive per i russi che hanno risorse stabili all’estero, il Cremlino sta mettendo al centro della sua azione per i prossimi anni il rientro dei capitali russi in patria piuttosto che il mantenimento di quelli stranieri.
Il vesante antropologico – autarchia e complesso europeo
Ugualmente interessanti, anche se più volatili nella discussione sull’efficacia delle sanzioni, sono le riflessioni sugli orientamenti antropologico-culturali russi nel corso di questa crisi.
A Occidente ci si chiede in questi giorni quanto potrà resistere Mosca a un isolamento dal resto d’Europa e se essa stia bleffando quando inizia a erigere barriere protezionistiche a Ovest, di cui le contro-sanzioni sono solo l’elemento più visibile e coreografico.
Chi in Europa e negli Usa decide di puntare sul muro contro muro con Mosca non tiene conto di alcuni aspetti-chiave del comportamento politico della Russia e dei russi nell’ultimo secolo, che consiglierebbero una maggiore cautela.
In primo luogo, la Russia si è storicamente trovata a suo agio nel corso di lunghi periodi di isolamento che si sono protratti fino a quando il sistema economico non è appunto giunto al collasso. L’autarchia è uno stato non solo politico ma anche culturale e sociale in cui tutto il paese si è volontariamente rifugiato nel passato, in una sorta di letargo dei rapporti con l’Occidente.
Questa sensazione di “autosufficienza” ben si concilia con la percezione di uno stato di emergenza creato dalle sanzioni: una condizione che sembra avere risvegliato nella popolazione russa attuale quello spirito di sacrificio che è uno degli aspetti ricorrenti dello spirito collettivo popolare del Novecento. Molti osservatori moscoviti, riferendosi al loro popolo, ne hanno sottolineato la capacità di dare il meglio di sé nei momenti peggiori, al punto da teorizzare la necessità che per governare i russi vi sia bisogno di uno stato di quasi-emergenza permanente.
In un paese che comunque si sente profondamente europeo, Mosca ha visto coesistere due atteggiamenti verso il resto d’Europa in apparenza contrapposti, che in realtà si sono alimentati a vicenda. Se da un lato c’è un complesso d’inferiorità rispetto alla classica cultura predominante europea, da cui la Russia cerca costantemente di ottenere riconoscimento, legittimazione e rispetto, dall’altro essa ha reagito a più riprese e spesso chiudendosi in se stessa alle critiche rivoltele dall’Occidente, considerate paternaliste, ipocrite e ingenerose.
Questa sensazione di incomprensione a sua volta ha fatto scattare la tendenza all’over-reacting, inteso come attitudine a reagire in maniera spropositata nel momento in cui si ha la percezione di trovarsi sotto attacco\assedio. In questo mix di nuove situazioni di emergenza, ritorno patriottico all’autarchia e sensazione di accerchiamento diplomatico, la Russia è molto più esposta a fare scelte non necessariamente razionali ma di reazione, come dimostrano i recenti HYPERLINK “http://bit.ly/EURASIA” \n _blankaccordi energetici con la Cina.
Stipulati a condizioni molto favorevoli per Pechino, impensabili solo fino a poche settimane prima della crisi ucraina, questi accordi dimostrano la determinazione russa – politica ma anche emotiva – di smarcarsi dall’Europa nel medio e lungo periodo.
In altre parole, quando minaccia contromisure estreme verso l’Ue – come la chiusura del suo spazio aereo o peggio ancora la riduzione drastica di forniture nel campo energetico – Mosca non solo non bleffa ma è perfettamente consapevole dell’alto costo che questa scelta comporterà, in primis per se stessa.
Noncurante di questo, fatalista e determinata, essa sta preparando un altro rogo di Stalingrado pur di non darla vinta ai vecchi cugini europei.
* Console Onorario Emilia Romagna E Professore presso l’Università del Salento, corrispondente di International Affairs.