La trappola conservatrice

Si assiste nelle ultime settimane ad un certo fermento politico in vista dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, previsto per il 20 Gennaio 2025.
La fazione conservatrice transnazionale, ma pur sempre circoscritta geograficamente al campo euro-atlantico, si alterna a quella (pseudo) progressista mondialista. Questo schema binario è funzionale al Sistema di dominio delle cosiddette élite economiche-finanziarie anglosassoni.
Le ragioni del ritorno in pompa magna di Trump e del suo sostenitore più celebre, Elon Musk, sono molteplici, ma tutte legate al declino decennale del campo imperialista occidentale.
Declino non significa sconfitta, come dimostra la volontà di proseguire con le campagne statunitensi di “esportazione della democrazia”, a volte camuffate come “rivoluzioni colorate”, per poi trasformarsi in campagne di sostegno economico-militare a regimi autoritari etno-nazionalisti.
Se l’Operazione Militare Speciale (con un ritardo di 8 anni) ha prodotto un’accelerazione dei piani statunitensi di distacco dell’UE dalla Federazione Russa e di totale subordinazione dell’Europa agli USA, l’amministrazione democratica (progressista-mondialista) ha strategicamente fallito. L’obiettivo di Biden, come affermato anche da Mario Draghi nel 2022, era provocare, attraverso lo strumento sanzionatorio combinato a quello militare, la caduta di Putin ed il “regime change” in Russia, avviando il processo di frammentazione etno-politico di quei territori e consentendo al Grande Capitale anglosassone l’espropriazione degli immensi giacimenti di petrolio, gas e minerali presenti. Inoltre, ciò avrebbe consentito agli USA e all’Inghilterra, di mutare i rapporti di forza con la Cina, messa all’angolo e costretta a negoziare da una posizione di debolezza e dipendenza energetica.
Il fallimento di questo piano ha prodotto un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-cinese e, di riflesso, l’accelerazione del passaggio ad un nuovo ordine internazionale multipolare. Ma, come spesso accade, si rischia di fare i conti senza l’oste, come accaduto in Siria, dove uno Stato uscito vittorioso da un conflitto decennale contro una coalizione di Stati guidata dall’amministrazione Obama, ma fortemente indebolito e ormai privo di un’ideologia nazionale solida, si è sciolto come neve al sole. La caduta di Damasco ha prodotto un arretramento delle posizioni russo-iraniane nel Vicino Oriente, favorendo temporaneamente il progetto espansionista israeliano e parallelamente l’inserimento dell’ennesimo cuneo anglosassone nella regione. Rimane l’incognita turca che potrebbe riequilibrare nuovamente i rapporti di forza tra le potenze (senza escludere un possibile reinserimento russo nel futuro).
La nuova amministrazione repubblicana avrebbe diverse opzioni per tentare di invertire il declino rilanciando la potenza statunitense. Una di queste è, appunto, l’accordo con Mosca, ovvero il tentativo di raggiungere una tregua con la Federazione Russa, garantendo a quest’ultima la possibilità di ottenere una porzione più o meno estesa di territorio ex-ucraino, per poi iniziare a gettare le basi per un cambio di governo al Cremlino, isolare l’Iran e tentare la zampata sulla Cina. Un primo approccio è avvenuto con le interviste di Tucker Carlson, ma più in generale la destra conservatrice statunitense sta cercando da tempo in maniera palese, di individuare un interlocutore politico nella Russia, coinvolgendo i propri proxy europei. In caso di diniego russo alle proposte americane, Trump potrebbe tranquillamente affermare di aver lavorato per la pace globale e, incolpando Putin, esercitare maggiore pressione sugli stati europei per aumentare la quota di PIL destinata agli armamenti e la totale subordinazione economica dell’UE a Washington. Un accordo tra le due potenze porterebbe alla sospensione dell’Operazione Militare Speciale, generando una serie di contraccolpi politici interni che si paleserebbero nell’emersione di una forma di dissenso apparentemente radical-patriottico, ma che fungerebbe da leva per destabilizzare il Paese e minare rapporti con i paesi ex-sovietici, rispolverando un nazionalismo slavo non dissimile a quello ucraino, ferocemente anti-asiatico. Questa manovra porterebbe alla distruzione di tutta l’architettura eurasiatica creata in oltre vent’anni dal Presidente Putin e dal suo entourage.
In sostanza Trump rappresenta un pericolo maggiore per la crescita della potenza russa, poiché mescola nuovamente le carte e genera nuove sinergie che troverebbero risonanza nel cuore della Federazione. La trappola conservatrice trascinerebbe Mosca nello schema binario occidentale “liberal-progressisti vs sovranisti-conservatori”, ostacolando il percorso di emancipazione politico-culturale dalla Zivilisation anglosassone.
Si innescherebbe un processo a catena distruttivo che condurrebbe la Federazione Russa ad una dimensione di potenza regionale, ritirandosi definitivamente da tutti i quadranti del globo.

Luca Rossi